Le puntate precedenti possono essere lette qui:
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seconda parte
terza parte
quarta parte
quinta parte
sesta parte
Uno. Settima parte
Aveva la faccia di chi guarda un pazzo, o un paranoico, ma anche la faccia di chi ama quel paranoico o quel pazzo, per cui mi sentii incoraggiato a spiegarmi meglio. La malvagità è qualcosa che traspare sempre, anche quando non è, per così dire, messa in atto? Ero così anche prima? O il presidente c’entrava qualcosa? Il fatto che a lui fossero concesse certe malvagità - adesso dico malvagità, ma all’epoca ricordo che parlai di arbitrio - aveva qualche influenza su di me, che gli somigliavo tanto? E su noi tutti? Diventavo malvagio - ancora, non parlai di malvagità ma di intraprendenza - per somigliare ancora di più a lui che era il Vero Me o perché lo ero, o perché lo volevo?
Mia moglie era una donna intelligente, anche se non intelligente tanto quanto la moglie del presidente, e mi ascoltava con attenzione. “Credi che noi siamo riproduzioni del presidente”, disse, e non era nemmeno una vera domanda, quanto più una riflessione, o una accusa. Io non replicai e attesi che proseguisse. “Credi che… intendo dire, cosa pensi riguardo all’unicità dell’esistenza? Alla riproducibilità dei tipi umani? Che cos’è l’originale? Può essere replicato? Può essere replicato in modi, tempi e luoghi che all’originale stesso sarebbero preclusi?”
“Ti ho chiesto solo se secondo te sono cambiato” provai a dirle. Ma mia moglie proseguiva su un percorso tutto suo, e mi sorprese che fosse così rapida e precisa nel formulare le sue questioni, perché mi immaginai che a quel punto si trattasse di pensieri a cui lavorava già da tempo, e che la mia domanda le avesse solamente fornito la scusa per tirarli fuori tutti insieme. “Le riproduzioni di un tipo umano tolgono autorevolezza all’originale o, al contrario, lo rendono più valido?” mi chiese ancora. Io non risposi. Mia moglie mi fissò a lungo, poi riprese a guardare la televisione. “E a cosa pensi che porti, questa eventuale facilità di riprodurre un unico tipo umano? A una forma di conforto collettivo? A una deresponsabilizzazione? Alla gratifica che sempre pertiene chi subisce una forma di propaganda? O sei soltanto un uomo che somiglia incredibilmente a un altro uomo, sia pure importante, e stai fantasticando più del dovuto su un mero accidente biologico? Secondo te” disse, indicando lo schermo “quelle persone sono vere? Sono attori? Sono elaborazioni grafiche costruite da una intelligenza artificiale? Somigliano a qualcuno? In realtà” aggiunse, ed ebbi l’impressione che calcasse a bella posta l’accento sulla parola realtà “in realtà non ha molta importanza, non trovi? Quel che conta è il momento, e la sua percezione. La fiducia che abbiamo nel momento.”
Non avevo risolto nulla e avevo più dubbi di prima. Per qualche giorno me ne stetti a rimuginare, senza far più parola con lei di quanto ci eravamo detti quella sera. Poi mi capitò che venissero a prelevarmi per un lavoro, un lavoretto breve appena fuori città, e allora presi il coraggio a due mani e mi rivolsi all’uomo in borghese. Anche se non mi conosceva a fondo come mia moglie, era comunque una persona che mi aveva visto a più riprese nel corso di quegli ultimi anni eccezionali, mi aveva colto nel pieno della mia ingenuità di uomo di provincia e mi vedeva ora, perfettamente integrato nel lavoro della capitale; era un uomo acuto e, ovviamente, avevo la certezza che mi controllasse di continuo senza che io me ne accorgessi. Si accorgeva che dentro di me ero diverso da prima? Gli chiesi se c’erano altri sosia. Ero sicuro che ce ne fossero. Non potevo essere l’unico. L’uomo in borghese fece un rapido cenno affermativo con la testa, o almeno così mi parve di intendere. Gli ripetei quel che avevo capito del discorso di mia moglie e aggiunsi delle considerazioni mie. L’uomo in borghese ascoltava in silenzio. Un militare guidava nel traffico che si diradava, diretto verso la campagna. Parlavo solo io. Nessuno mi diceva di starmene zitto: forse il fatto che parlassi era irrilevante, forse una qualche forma di sproloquio era tollerata purché rimanesse all’interno dell’abitacolo dell’automobile. Quand’ebbi finito di parlare ero sudato e mi passai un fazzoletto sulla fronte. “Scusate” dissi “è che a volte ho bisogno di tirar fuori i miei pensieri”.
“I pensieri sono un peso” mormorò l’uomo in borghese, e tacque. Per una buona mezz’ora non si sentì altro che il rumore delle ruote dell’auto sulla strada e il mio respiro, affannoso, che si regolarizzava a poco a poco.
“Rientriamo” disse a un certo punto l’uomo in borghese. Poi soggiunse qualcosa fra sé, e non fui nemmeno certo di aver sentito bene perché parlò a voce bassissima. Le chiazze d’acqua morta si contemplano e pensano di essere l’oceano perché non sanno cos’è la tragedia, disse, e io non seppi se si stava rivolgendo a me o a se stesso e non osai replicare. Per l’intera durata del viaggio non mi aveva mai rivolto uno sguardo, e non lo fece nemmeno quando rientrai a casa.
I mesi trascorsero. La vita era sempre quella. Avevo smesso di farmi domande, e nel paese non si verificarono episodi sociali degni di rilievo: gli storici attesteranno quel periodo come una relativa quiete prima dell’incidente. Eh, l’incidente: bisogna pur parlarne. Si trattò dell’evento più grave dell’intero corso della presidenza, il singolo fatto che avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi: il presidente fu abilissimo a non farsi destabilizzare e a trarne comunque vantaggio. Di lì in avanti, come sapete, il suo potere non corse più rischi gravi, e negli anni finì per consolidarsi a tal punto che molti di noi lo vedevano come una legge di natura.
Ricorderete senz’altro quel che è successo, anche se sono passati quindici anni. La questione antropologica è semplice: esiste un unico popolo, e questo popolo ha una voce. Chi non vi si adegua non fa parte del vero popolo. L’incidente accadde al tempo del primo referendum, un paio di settimane prima che si andasse al voto. Il fatto che quell’uomo si presentasse al mondo come oppositore legittimo era più un fatto di vanità personale che di scelta politica; lo pensavo allora e non ho cambiato idea. Comunque si era rifugiato all’estero meno di sei mesi dopo che il presidente era stato eletto, e dal suo rifugio dorato tuonava a giorni alterni contro i supposti mali che il presidente stava infliggendo al nostro paese: una volta chiamava in causa la legge elettorale, un’altra volta gli artefici per modificare la costituzione, un’altra volta ancora il trattamento che si riteneva il presidente riservasse all’opposizione, quando poi s’è visto che l’opposizione s’era ammansita per conto proprio; era poi il turno degli strali sulla mancata libertà di stampa, sul controllo delle materie prime, sui vincoli all’attività culturale e a quella giudiziaria, e qui ripeto che vale lo stesso discorso fatto per l’opposizione politica. Questo benedetto oppositore, però, aveva un suo fascino, un suo carisma. Che invidiasse il presidente era palese: correva voce che fosse stato uno dei suoi primissimi consiglieri e che avrebbe aspirato a un ruolo di ministro. Non si sa cosa mai andò storto, ma la sua fuga fu improvvisa e burrascosa. Convinto di incarnare quella sorta di ambigua mediocrità che sovente si confonde con il genio, sublimò il dolore nella calunnia. Vivevamo in un’epoca, allora - e le cose sono peggiorate - in cui comunicare era facilissimo. Chiunque poteva dire la sua e trovare spazio: che si trattasse di verità o menzogne, nessuno ci badava. Raccogliere notizie fondate era faticoso, mentre diffondere un’opinione, quale che fosse, non costava nulla: a questo guaio il nostro presidente dovette porre rimedio, ma il suo oppositore fece di tutto per approfittare della libertà e dell’impunità di cui godeva nel paese straniero in cui si era acquartierato, e seguitò a diffondere il suo veleno sottile. Irrideva la campagna contro la corruzione che il nostro presidente stava portando avanti fin dall’inizio del suo mandato: tu restringi il respiro della democrazia, gridava, e la corruzione aumenterà di pari passo, invece di diminuire. Il presidente non dava ascolto all’oppositore, lo ignorava; ma la voce di quell’uomo, dall’estero, lontano da casa e dai nostri problemi reali, era insistente e fastidiosa. Era evidente che si trattava di una battaglia a distanza su questioni eterne e indicibili di fiducia, più che su questo o quel tema specifico: e l’oppositore modulava al sua offensiva su vaghi termini di speranza, rivolgendosi ai giovani; la speranza infatti serve ai giovani, ma il nostro era un paese di mezza età che aveva, oltretutto, la realistica prospettiva di vedere i suoi cittadini invecchiare a lungo e trascorrere anni e anni a rinverdire il racconto di un passato purchessia, e quindi la speranza che l’oppositore cercava di proporre era fuori luogo, e sguaiata, e che mal si adattava alle esigenze reali delle persone. Al paese, sosteneva il presidente, servivano la pace e un nemico, il che può sembrare paradossale ma non lo è, se si trova un giusto equilibrio. Così individuò nell’oppositore il nemico: una volta che l’oppositore fosse morto - perché era chiaro ormai che sarebbe morto - il nemico sarebbe stato chiunque avesse tentato di raccoglierne l’eredità materiale e morale. La pace, a questo punto, sarebbe venuta da sé, diceva: e il presidente, anche stavolta, non si sbagliava.
[7. Continua. ©ElenaTosato 2024]
La vita non è la stessa se non si affronta la scienza in terzine.
Questa è la proposta della settimana:
Teoria dei canti
Un viaggio in terza rima attraverso la materia, il numero e la parola. Novantasei canti giocati di sponda tra la fisica, la matematica e il linguaggio (ma è solo poesia): si entra in mondi grandissimi e in mondi piccolissimi, in mondi fatti di numeri, in mondi fatti di logica, di parole, e di personaggi reali e letterari, di scienziati e di poeti, di macchine e di animali parlanti.