Questa settimana Sillabe si prende una pausa dal Poema di una macchina, ma continua a girare attorno agli argomenti su cui si basa il libro. Dal momento che siamo nella settimana di Natale, e che è la fine dell’anno e come al solito si usa pensare che sia tempo di bilanci, la puntata di oggi verte sulle aspettative che abbiamo sulle AI ma, più che altro, su noi stessi.
Innanzitutto, però, un po’ di cose sulla newsletter e sui libri che si porta dietro.
È un progetto piccolino, niente da obiettare. Sillabe fa, quando va bene, 1700 pagine lette al mese. Non ho mai investito in pubblicità, non mi interessa seguire temi culturalmente di moda, ho delle capacità sociali problematiche (…), non ho né tempo né modo di occuparmi compulsivamente della promozione del prodotto. Per me questo è uno spazio in cui scrivere e condividere cose un po’ più lunghe senza avere l’incubo dell’algoritmo delle piattaforme social che pone l’enfasi su contenuti brevi, polarizzanti e agglomerati su grandi tematiche che seguono gli alti e bassi delle mode. Ciò che scrivo sta qui in bell’ordine e basta così.
Stesso discorso per i libri: il libro è vendibile? non è vendibile? Ciò che conta sul mercato è il tema trattato o, in subordine, l’appetibilità del nome dell’autore. Il tutto composto secondo regole comunicative abbastanza pianificate e che hanno la caratteristica principale di livellare stile ed espressività secondo una serie di cliché narrativi ben noti a chiunque abbia mai messo piede in una scuola di scrittura; che poi scuola di scrittura vuol dire centro per l’impiego culturale sottopagato o luogo di costruzione di relazioni sociali, perché la scrittura che si impara è, al più, un romanzettese standard esercitato con l’unico fine di trovare collocabilità nel mercato delle “cose scritte”. Mercato che è a sua volta sempre più in crisi di numeri e qualità, ma che garantisce (o promette di farlo) una presenza continua in salotti autoriferiti che a far dei confronti viene da rimpiangere quello di Madame Verdurin. Non me ne faccio un merito, ma con questa roba qui davvero non c’entro niente, e quindi si continua a far newsletter e a navigare su una barchetta solitaria. Cerco solo di scrivere bene, è l’unico patto che faccio con chi mi legge.
Detto questo, torniamo a parlare di argomenti pertinenti col Poema di una macchina che abbiamo esaminato nelle ultime quindici settimane e che continueremo a sfruculiare fino all’estate prossima. Oggi Sillabe prende lo spunto da un paio di articoli usciti su Nature negli ultimi tempi.
Il primo articolo riguarda due studi attraverso i quali i ricercatori hanno analizzato se i partecipanti fossero in grado di distinguere delle poesie create da un modello AI (nella fattispecie, ChatGPT 3.5) da quelle composte da poeti inglesi ben noti quali Shakespeare, T.S. Eliot e Emily Dickinson, e come valutassero qualitativamente queste opere. Gli studi si proponevano anche di esaminare l'impatto delle percezioni sull’autore (umano o AI) nelle valutazioni qualitative delle poesie, e di analizzare come la familiarità con la poesia influenzasse l’accuratezza delle valutazioni. Per fare questo ai partecipanti veniva detto che la poesia era stata scritta da una AI, oppure che era stata scritta da un umano, oppure non veniva detto niente.
I risultati sono stati abbastanza sorprendenti. Per prima cosa, i partecipanti non sono stati in grado di capire se quello che si trovavano davanti l’aveva scritto un poeta in carne e ossa oppure un LLM: l’accuratezza è stata del 46,6%, il che vuol dire che perfino tirando a caso avrebbero fatto (un po’) meglio. In secondo luogo, erano più propensi a dare valutazioni più alte quando si diceva loro che la poesia era stata scritta da un essere umano, anche se in realtà era stata scritta da una macchina. In terzo luogo, ai partecipanti generalmente le poesie scritte dalle AI piacevano di più di quelle scritte dai poeti veri, in termini di ritmo e di chiarezza emotiva: è interessante vedere che le ritenevano addirittura… più umane dell’umano, e questo apre a prospettive interessanti. La spiegazione fornita dagli studi è che la possibilità, da parte delle AI, di attingere a un database enorme, fa sì che esse ne guadagnino in accessibilità dei contenuti generati per quanto riguarda un pubblico non esperto. Detto in altro modo: le AI che scrivono poesie rispondono meglio a ciò che il pubblico generalista si aspetta da loro.
I partecipanti, in realtà, prevedevano che avrebbero valutato meglio le poesie umane. Perché non è accaduto? Perché il più delle volte le hanno trovate, anzi, meno comprensibili? Anche qui la risposta può risiedere nel fatto che un LLM procede sulla strada della massimizzazione della probabilità, e quindi il lettore non esperto è appagato dalla lettura della poesia “artificiale” perché essa risponde meglio ai suoi preconcetti. Le poesie di ChatGPT comunicano i temi e le emozioni in modo più chiaro, insomma.
Qui c’è un esempio scelto da me, nel senso che stamattina ho chiesto a ChatGPT di scrivere un sonetto nello stile di Francesco Petrarca:
Oh sguardo dolce, che il mio cor rapisti,
nel ciel d’amor risplendi, eterno lume,
ché il tuo candore, pur nel mio costume,
la notte oscura in giorno chiaro disti.
Per te, mia vita in mille affanni visti,
non trova pace il core né il volume
del ciel risponde al mio crudel costume,
ché fra i sospiri i sogni ancor tradisti.
Ma s’io potessi in questo duol finire,
fra le tue mani il giogo a me più caro,
la sorte avversa alfin potrei sfidare.
Che giova, oh alma mia, così languire,
se il mio desio dal tempo resta avaro,
e solo in te riposa il mio sperare?
E qui c’è il Petrarca vero, dal Canzoniere (XII, anche qui un sonetto):
Se la mia vita da l’aspro tormento
si può tanto schermire, et dagli affanni,
ch’i’ veggia per vertù de gli ultimi anni,
donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento,
e i cape’ d’oro fin farsi d’argento,
et lassar le ghirlande e i verdi panni,
e ’l viso scolorir che ne’ miei danni
a·llamentar mi fa pauroso et lento:
pur mi darà tanta baldanza Amore
ch’i’ vi discovrirò de’ mei martiri
qua’ sono stati gli anni, e i giorni et l’ore;
et se ’l tempo è contrario ai be’ desiri,
non fia ch’almen non giunga al mio dolore
alcun soccorso di tardi sospiri.
Un paio di note al volo: chi legge Sillabe da un po’ di tempo forse ricorderà che le capacità poetiche di ChatGPT erano già state sondate l’anno scorso, qui e qui. Negli ultimi 12 mesi si registra un miglioramento netto dal punto di vista del metro e delle rime: gli endecasillabi non sono più un problema. Quello che rimane, perché come dicono gli informatici it’s not a bug, it’s a feature, è per l’appunto la caratteristica di procedere scegliendo le parole e le immagini più probabili.
E qui si giunge dunque al punto: che cosa ci aspettiamo quando leggiamo, o addirittura scriviamo, una poesia? E perché? Perché, tanto per dire, sui social è più probabile vedere apprezzati e condivisi dei versi di banalità esasperante sull’amore e sull’anima che quelli, poniamo, di un Vittorio Sereni? E dico abbastanza a caso, non ho una particolare passione per Sereni: è citato ad esempio giusto perché non rientra nella tipologia di versificatori atti a performare nelle dinamiche social.
Questo poi succede a meno che non vi troviate in un gruppo di aspiranti poeti, nel qual caso è invece più probabile che troviate apprezzati e condivisi versi di Vittorio Sereni perché i convitati sanno che Vittorio Sereni è un buon poeta; ma, se non leggessero il nome alla fine, probabilmente non saprebbero dire se quei versi hanno un peso specifico diverso da quelli di banalità esasperante sull’amore e sull’anima. Perché accade ciò? Conformismo? Necessità di trovare conferme pubbliche ai nostri sentimenti privati?
Insomma: chiediamo che la letteratura ci interroghi o soltanto che ci consoli? Che ci metta in dubbio o che certifichi la nostra identità?
(Io a volte nella vita sono molto triste e faccio domande per le quali in fondo non voglio avere risposta.)
Il secondo articolo invece riguarda il rapporto dei fruitori di opere d’arte con i lavori elaborati dalle AI. Quali sono i pregiudizi verso l'arte generata dall’AI? In che modo questi pregiudizi influenzano il valore attribuito all’arte umana? Come viene percepita la creatività nell’arte generata, elaborata o creata (mi astengo dalle dispute sul temine più adatto) dagli esseri umani, dalle AI o dalle collaborazioni fra umani e AI?
Lo studio evidenza i nostri pregiudizi umani nei confronti dell’arte “artificiale”: le opere etichettate come generate da AI sono percepite come meno preziose rispetto a quelle umane, sia in termini di valore economico che di abilità artistica, ma quando i partecipanti non sanno chi è l’autore, spesso giudicano le opere AI di qualità simile o superiore a quelle umane. Quando l’arte umana viene confrontata direttamente con l’arte delle AI, inoltre, i partecipanti tendono a valorizzare di più la creatività umana. Insomma: ci aspettiamo che l’arte delle AI sia “poco creativa”, ma quando non ci dicono chi è l’autore tendiamo ad apprezzarla come se l’avesse fatta un essere umano.
Non mi voglio dilungare ancora su questi studi, che sono peraltro interessanti e che potete leggere direttamente dai link rispettivi. Sarebbe però il caso di interrogarsi su di noi: sulla natura delle nostre aspettative, sulla qualità del bagaglio culturale che ci portiamo dietro e su cui basiamo le suddette aspettative, sulla pervasività possibile di un gusto mediano1, e sul suo ruolo nell’elaborazione futura di ciò che definiamo creatività, o valore artistico.
Così, per discutere animatamente di qualcosa in alternativa alla tombola di Capodanno…
È giunto il tempo dei saluti. Sillabe ritorna a pieno ritmo, col Poema di una macchina, venerdì prossimo, e saremo già nel 2025.
Sillabe anche l’anno venturo sarà un progetto completamente gratuito. Chi volesse supportarmi in altro modo può passare su Amazon a comprare qualche libro, pescando anche dall’elenco che si trova su questa pagina, oppure, se siete a Bari e dintorni, recandovi di persona alla libreria Millelibri, in via dei Mille 16, che vale sempre la pena perché è l’unica libreria in Italia dedicata unicamente alla poesia, e ci si trovano cose che voi umani non potete immaginare.
Vi invito anche a dare un’occhiata all’ultimo uscito, Canzoniere matematico.
Se già non lo siete, potete poi iscrivervi alla newsletter, in modo che vi arrivi nella casella della posta (controllate lo spam, se non la vedete); potete diffondere questi post, o il progetto stesso di Sillabe.
Buona fine e buon inizio!
E qui Dwight McDonald aggrotta le sopracciglia.
Se non ci si apre all’empatia, all’attenzione sghemba, alla comunione emozionale, cosa che alla AI non riuscirà mai, per quanto sia chiaro il contesto, la visione di un’opera d’arte verrà esperita solo dalla ragione, mai dal cuore. Ed è quello che ChatGPT fa: elabora versi senz’anima, metricamente perfetti, ma mancanti di qualcosa. Probabilmente è questa la vera banalità disarmante: alla ragione tutto risulta chiaro e le parole non contano nulla.
(Naturalmente il commento all’ottimo post era molto più lungo. Ma siccome mi sono reso conto di aver aperto infinite porte, senza peraltro chiuderle, ho riportato solo la chiusa riassuntiva)🙂