La morte sappiamo tutti cos’è, naturalmente, e dal punto di vista storico, letterario e filosofico ne abbiamo tratto pensieri più o meno spaventati, più o meno consapevoli: da sempre ci diamo da fare per esaminarla e per esorcizzarla in tutti i modi che ci vengono in mente. L’analizziamo con la scienza e con la giurisprudenza, la esorcizziamo con l’arte e con la religione.
L’obsolescenza programmata invece è un concetto che riguarda prettamente le macchine, i marchingegni, non solo quelli che pensano e che parlano, ma in genere tutti quelli che sono stati prodotti in serie: infatti è un meccanismo - anche lei - che fa sì che un determinato prodotto si rompa, o smetta di funzionare, o abbia necessario bisogno di un’implementazione dopo un certo periodo, tipicamente subito dopo che è uscito di garanzia, e questo succede perché siamo soggetti, noi esseri umani e loro macchine, a leggi di mercato di una società che sul mercato si basa; e chi ha prodotto quell’oggetto ha ovviamente tutto l’interesse a vendercene altri.
Cosa succede quando paragoniamo questa realtà tecnologica a quella della poesia umana? La morte, per i poeti, non è solo la fine di una vita, ma diventa simbolo di memorie, di bellezza effimera, di un addio che, pur doloroso, contiene in sé una profonda carica di significato.
Tre punti di vista umani, e tre artificiali, su quel che succede quando non ci siamo più, noi umani e loro macchine.
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