Nona e penultima parte del racconto: settembre si avvicina, e con esso l’urgenza di nuove cose da raccontare.
Ma per intanto Uno è ancora qui, con una puntata un po’ triste che precede un quasi colpo di scena… che leggerete la settimana prossima. Ricordo che le precedenti puntate sono disponibili online a questi indirizzi:
prima parte
seconda parte
terza parte
quarta parte
quinta parte
sesta parte
settima parte
ottava parte
Uno. Nona parte
Mia madre morì. Accadde all’improvviso, tre anni fa. Ricevetti una telefonata dall’ospedale in cui era stata ricoverata per uno scompenso cardiaco. Rimasi muto e idiota a sentire la voce di una dottoressa molto gentile che mi ragguagliava su fatti medici che non capivo, e la mia stessa voce di figlio defraudato dell’inenarrabile che rispondeva con cortesia alle domande e dava indicazioni. Ripetei tutto, parola per parola, a mia moglie. Mia moglie mi abbracciò. Dovemmo fare i preparativi per il funerale: tornare in una città da cui mancavamo entrambi da diciott’anni, muoverci con discrezione, evitare i contatti con chi ci aveva conosciuto. Mia moglie ebbe il permesso di fare una breve visita ai suoi genitori, accompagnata da una scorta. Quanto al funerale, saremmo stati gli unici presenti: noi due, il prete che aveva ricevuto istruzioni sommarie e perentorie, i due uomini di scorta e ovviamente il feretro di mia madre, a cui avrei voluto presentarmi per una volta con il mio volto antico, e non travestito, ma non mi era stato concesso. Poco importa, mi dissi; lei mi riconoscerebbe comunque.
E così andammo a seppellire mia madre. Fu un viaggio lungo, non tanto per la strada e per le condizioni del traffico, quanto per i pensieri che non mi davano tregua, e che erano cupi e confusi. In tasca avevo con me un biglietto di condoglianze scritto a mano, credo, dal presidente. Lo conservo ancora. Arrivammo nel tardo pomeriggio, e pernottammo in un albergo nel quale il personale aveva avuto la consegna del silenzio. La stanza era bella, dallo stile asciutto ma non anonimo come spesso accade negli alberghi. Un’unica grande finestra si apriva, dal settimo piano in cui eravamo, sul profilo ormai scuro della città. Riconoscevo le sagome, strizzando gli occhi per capire cosa ci fosse di nuovo. Mi sembrava di avere la testa vuota, mi sembrava di nuotare sott’acqua, e che non sarei riemerso. Mia moglie si occupò di sistemare quel poco bagaglio che ci eravamo portati. “Il bagno è grande” disse. Non ricordo altre sue parole. Mi tenne la mano per tutto il tempo. La cena ci fu servita in camera alle otto.
Il mattino seguente mi presentai in ospedale, da solo. O meglio: ero seguito a distanza da uno dei due uomini di scorta, mentre l’altro era rimasto in albergo a disposizione, aveva detto, di mia moglie che doveva essere accompagnata dai suoi genitori. Lo riporto qui: la dedizione e la professionalità di quei due uomini fu ammirevole. L’ospedale era uno dei vecchi ospedali pubblici della città e, in quanto tale, popolato da personale giovane e inesperto o anziano e incapace, comunque pagato poco, e pazienti senza troppi mezzi di sostentamento. Chi poteva, già da tempo si faceva curare in qualche clinica privata. A sapere che mia madre era morta in un posto del genere mi si strinse il cuore. Era stata un’onesta lavoratrice, per tutta la vita. E poi io, io lavoravo per il presidente. Credevo che questo le avrebbe garantito qualche privilegio, non fosse che il minimale vantaggio estetico e morale di non finire i suoi giorni in un ospedale quasi diroccato, in mezzo a gente di poco conto. Mi convinsi che ciò poteva essere imputato al fatto che mia madre si era sentita male all’improvviso, e l’avevano portata nel primo punto di soccorso a disposizione. Non venni accolto dalla dottoressa con cui avevo parlato al telefono, ma da un suo collega: un tipo magro che doveva aver finito da poco la specializzazione e che appariva nervoso. Non faceva che grattarsi il naso. Non credo sapesse chi ero. Per lui dovevo essere soltanto un uomo sulla cinquantina che si nascondeva sotto occhiali scuri e capelli non suoi, e che veniva a reclamare il corpo di una vecchia che occupava da troppe ore uno dei vani dell’obitorio.
Sbrigate le prime formalità burocratiche, andai - ancora da solo, cioè con l’uomo della scorta - nell’appartamentino in cui mia madre aveva vissuto negli ultimi anni. Aprii con la chiave che avevo trovato nel suo cappotto, in ospedale, e che mi era stato riconsegnato insieme agli effetti personali. La casa era in ordine, piena di vita sospesa come se qualcuno dovesse tornare. C’era un cartone di latte in frigorifero. Lo svuotai nel lavello e soffocai un istinto di piangere. “Vorrei prendere qualcosa, ma non so cosa” dissi all’uomo della scorta, incerto se fosse lui il destinatario adatto per quelle parole. L’uomo si strinse nelle spalle. Se avessi scritto una nota se ne sarebbe occupato chi di dovere, e mi sarebbe stato recapitato tutto. Il resto sarebbe stato venduto. Questo sapevo. Girovagai per le stanze: la cucina, il piccolo soggiorno, la camera da letto e il bagno. Aprii i cassetti, uno a uno, e li richiusi. Ero in preda a un leggero senso di vertigine. Che c’era che non andava? Dopo qualche minuto trascorso a infilare le mani tra vecchie camicie e foulard che nessuno avrebbe mai più indossato ebbi come una folgorazione: mia madre teneva dei diari, dei vecchi diari scritti a mano, e non ce n’era traccia. Controllai nello scaffale dei libri. Ero sicuro che molti di quei volumi non le appartenessero. Non poteva averli letti, non era roba che le interessasse. O ero io che non la conoscevo più così bene? La vertigine aumentò e dovetti sedermi sul letto.
Non fare domande, mi dissi. Non pensare. Mi rialzai espirando rumorosamente. Presi un golfino a caso dall’armadio, un golfino di lana grigio, tornai alla porta d’ingresso e dissi all’uomo della scorta che potevamo andare. L’uomo si strinse ancora nelle spalle, senza dire nulla. Scesi le scale senza guardarmi intorno. Avevo la netta impressione che, dagli spioncini, tutti gli occhi del vicinato fossero puntati su di me. Sotto il mio travestimento e nonostante la giornata fredda, sudavo.
In albergo ritrovai mia moglie. Non parlammo molto. Mi raccontò dei suoi genitori, e la ascoltai appena. Non le dissi delle impressioni che avevo avuto a casa di mia madre. “Ho preso un golfino” le dissi solo, e glielo mostrai. Mia moglie disse che era un bel golfino.
Il funerale ricalcò l’atmosfera di straniamento che avevo vissuto fin lì. Eravamo in una piccola chiesa deserta. C’erano delle vetrate contemporanee che ritraevano scene dei vangeli e il Cristo aveva, in tutte quante, una bizzarra espressione asettica. La panca era particolarmente scomoda: atta più a ricordare un’eterna e imprecisata penitenza che i dettami del debole amore umano. Il prete parlava trascinando le vocali, forse indisposto dall’esiguità del pubblico, forse intimorito dalle direttive che aveva ricevuto da poteri temporali più alti del suo, ma eseguiva il compito con diligenza. Non ne ascoltavo le parole; mi lasciavo cullare dal tono della voce. Sentivo il respiro regolare di mia moglie accanto a me, e un odore di incenso che ricordava il sudore estivo. Il prete spiegava la storia dell’uomo fatto a immagine e somiglianza divina, e senza che io lo volessi la bocca mi si spezzò in un ghigno. Immagine e somiglianza! Se solo avesse saputo cosa volevano dire, nel concreto della mia esistenza, i concetti di immagine e somiglianza! Aspettai che continuasse fino alla parte in cui accennava a episodi reali della vita di mia madre, storie che gli erano state raccontate di seconda mano e che avrebbero potuto essere parte della vita di chiunque, e le appiccicai sopra i miei ricordi minuti, trasformandoli in un bolo narrativo indigeribile; aspettai che parlasse del senso della morte, e della resurrezione, e della vita eterna, e dell’amore che tutto comprende, e ripensai al golfino di lana grigia, ai libri sconosciuti, alle volte in cui mia madre mi aveva raccontato le storie dei pirati quando ero a letto malato, a come aveva sorriso il giorno del mio matrimonio, a certe piccole scene che non avevano alcun significato, e a cui cercavo di darne uno solo adesso che lei era chiusa nella cassa di legno accanto a me. Pensai al presidente, a sua madre che era ancora viva, invece, e poi mia moglie e io ci alzammo, e l’uomo della scorta ci venne accanto, e quattro uomini vestiti di nero presero in carico la cassa di legno, e quindi mia madre, e andammo tutti insieme al cimitero. Mia madre fu messa in un loculo vicino a quello di mio padre, e gli uomini vestiti di nero apposero una targa in cui c’era scritto il nome di mia madre, che in quel momento fu un po’ anche il mio.
[9. Continua. ©ElenaTosato 2024]
Un prosimetro è un componimento che alterna versi e prosa.
Adesso non li scrive più nessuno, i prosimetri, ma sono una formula che consente varietà d’impiego, potendo innestare la lirica nel romanzo.
Proposta della settimana:
Una poderosa rapsodia di incompiuti
Tecnicamente è un prosimetro anche questo, ma qui la prosa e la poesia raccontano due storie diverse. Ci sono una conduttrice radiofonica di un programma culturale che ha perso il lavoro, un informatico pericolosamente attratto da questioni filosofiche, un vicinato imponderabile, una città da ricostruire sui ricordi passati e un vecchio poema sull'amore e la malattia. È una storia che intreccia prosa e versi, una storia che parla di relazioni incomplete, di rapporti mancati e di un'opera postuma.