Capitolo finale di questo racconto. Che dire: grazie per aver letto fin qui, spero che il racconto sia stato di vostro gradimento. Se ne volete altri, vi ricordo che un elenco della mia produzione è a disposizione qui.
La settimana prossima la newsletter comincia a delineare gli scenari futuri: si riparte infatti con un nuovo progetto che ci accompagnerà per un anno circa, e che ha a che fare con un poema.
Nel frattempo, chi volesse recuperare le puntate precedenti di Uno le può trovare qui:
prima parte
seconda parte
terza parte
quarta parte
quinta parte
sesta parte
settima parte
ottava parte
nona parte
Uno. Decima parte
“Pensa che potremmo uscire? Nulla di che, è che non me la sento di restare in albergo, stasera. Ce ne andiamo in un bar, beviamo una cosa e poi rientriamo. Andiamo in un posto tranquillo, non affollato. Sempre se è possibile. Lei pensa che…?”
Alle mie parole, l’uomo della scorta fece un cenno della mano per farmi tacere. Lo sentii borbottare qualcosa nel microfono che aveva al polso, e lo vidi annuire mentre la voce di qualcuno gli dava le direttive opportune.
Quand’ebbe finito di comunicare con il suo superiore mi guardò, stavolta non si strinse nelle spalle, e disse: “Potete uscire. Rientreremo entro le dieci, e il locale sarà designato da noi.”
Mi sentii sollevato e riconoscente. Eppure non sapevo - e nessuno poteva saperlo - che stava per verificarsi uno di quegli episodi in cui un minuscolo granello di sabbia rischia di far inceppare un meccanismo perfetto, il meccanismo che regolava la mia vita da quasi vent’anni.
Poco prima delle nove entrammo in un pub in cui ci trovammo a essere, con scarsa sorpresa, gli unici avventori. Ci sedemmo a un tavolo e ordinammo due birre; mia moglie chiese anche qualcosa da mangiare, ma io non avevo fame, avevo lo stomaco chiuso. Sperai che almeno l’alcol mi tranquillizzasse.
“Non uscivamo da tanto tempo” sussurrò lei.
“Sembra quand’eravamo fidanzati” le risposi. Mi sentii patetico. La osservai con dolcezza. Provai a vedere la scena dall’alto, e a osservare con dolcezza anche me. Una coppia di cinquantenni davanti a due birre in un pub vuoto, sommersi dalle tonalità più scure del marrone e del verde. Le lampade erano impotenti. Bevvi un altro sorso.
Mia moglie disse: “È stata una giornata pesante”. Feci di sì con la testa.
Solo allora prestai orecchio alla musica in sottofondo. Non la conoscevo e non mi piaceva, ma il volume era basso, per cui non mi disturbava. Le parole della canzone erano molto stupide. Accarezzai il legno rugoso del tavolo, poi giocai un po’ con le dita della mano di mia moglie. Le mani invecchiano presto. Anche le mie mani invecchiavano.
Controllai con la coda dell’occhio dove fosse l’uomo della scorta. Era seduto al banco, verso la parete di fondo. Beveva del succo di frutta e piluccava dei salatini. D’un tratto mi parve un brav’uomo, un biondo con l’aria imperturbabile, lontano dalla sua famiglia, posto che ne avesse una, coi muscoli tesi e stanchi, e un cronico debito di sonno.
Avevo finito la birra. Alzai il braccio per chiamare il barista e farmene portare un’altra.
“Non ubriacarti” mi ammonì mia moglie.
“Non mi sono mai ubriacato in vita mia, non mi ubriacherò stasera”.
Il barista arrivò a prendere l’ordine. Gli parlai senza guardarlo in faccia, all’inizio; poi, visto che indugiava nell’andarsene, sollevai lo sguardo.
“Mi scusi” cominciò quello. Era giovane, ma non giovanissimo. Non doveva avere trent’anni.
“L’ho notato quando siete entrati. Sicuramente sbaglio. Sa, lei assomiglia al mio vecchio maestro, quello che avevo alla scuola elementare. Cioè, se ne andò durante l’anno, in terza. Non so, lei me lo ricorda. È strano perché…”
Percepii un debole ma nettissimo irrigidimento nei muscoli del collo di mia moglie, al di là del tavolo. L’uomo della scorta appoggiò piano il bicchiere mezzo vuoto al bancone e rimase all’ascolto. Potevo quasi sentire il palpito accelerato del suo cuore, ma da fuori non dava segni di tensione.
Sorrisi con un certo imbarazzo. L’orrore di tutta la faccenda era che anche io lo riconoscevo, adesso. Ma sicuro. Mi ricordavo di lui: il suo volto bambino si sovrappose a quello del giovane adulto che avevo di fronte. Lo sentii ripetere le tabelline e i nomi della storia patria. Era un alunno sveglio, non geniale, ma simpatico. Sapevo ancora il suo nome; sapevo che, quando con i suoi compagni giocava a calcio durante la ricreazione, era quello che urlava di più.
“Credo che lei mi abbia scambiato per qualcun altro” dissi. Era il mio travestimento a parlare per me; erano l’uomo della scorta, mia moglie, l’uomo in borghese, il presidente, il cadavere di mia madre, chiunque, ma non io. “Non ho mai fatto il maestro” aggiunsi, chiedendomi se quella giustificazione non richiesta suonasse sospetta.
L’uomo della scorta finse di bere un altro sorso di succo di frutta.
“Sì, in effetti” balbettò il barista, accennando un inchino. “La somiglianza è davvero lieve. E poi sono passati tanti anni, ed ero bambino. Beh, mi scusi ancora. Le porto la sua birra.”
Fui tentato di dirgli che non avevo più sete, ma sarebbe stato un errore evidente. Non potevo compromettermi oltre. Sia mia moglie che l’uomo della scorta però sembravano già più tranquilli, e anch’io ripresi confidenza con me stesso e con l’ambiente.
Finimmo di bere con calma, pagammo e uscimmo. Faceva freddo ma il cielo era sereno. Cercai di capire quante stelle si vedessero: agghiaccianti, disperate, solenni, qualsiasi cosa andava bene. Non vidi quasi nulla a causa delle luci della città, e così mi misi febbrilmente a immaginarle: lì c’è il grande carro, mi dicevo, lì è la Bilancia, e poi Venere…
Ripetevo a me stesso le semplici nozioni di astronomia che a suo tempo dovevo pur aver insegnato ad altri.
“Ripartiamo stasera stessa, immagino” dissi all’uomo della scorta.
L’uomo della scorta annuì. “Dormirete in macchina. I vostri bagagli saranno recuperati da noi domani mattina.”
Per quanto possa sembrar strano, vista la congerie di eventi esterni e interni che hanno travolto il paese negli ultimi due anni e mezzo, per quel che mi riguarda di questo periodo non ho molto da raccontare. Il mondo crollava, nella maniera in cui sempre crolla il mondo: per rinascere sotto altre forme, non necessariamente migliori, non necessariamente peggiori, con il suo carico di morti evitabili e di retorica imponente, materia per i maestri di domani che la insegneranno nelle loro scuole insieme alla matematica e alla musica. Il presidente vacillò, poi tornò forte, poi vacillò di nuovo. Io seguitavo a correre dov’era richiesto e, quando avevo del tempo libero, a contribuire alla costruzione della mia oscurità morale personale. Il vecchio avvocato ebbe un’altra visita delle forze dell’ordine; un ristorante chiuse, ufficialmente per questioni igieniche, e del suo proprietario si persero le tracce. Una donna che faceva piccoli lavori di sartoria su commissione fu coinvolta in un brutto affare di ricettazione, e raccontai storie indicibili anche su un conducente di tram che, su mia segnalazione anonima, fu scoperto in possesso di almeno otto (secondo altre versioni, undici) passaporti stranieri. Bisogna pur ingannare il tempo, nell’attesa di un colpo di stato: e io, vedete, sapevo perfettamente che un colpo di stato avrebbe avuto luogo, prima o poi. Nemmeno il presidente poteva durare per sempre. Il potere non lo aveva logorato: ma la sorte umana è un groviglio di destini che si maschera troppo spesso col volto del caso più cieco, e il suo destino non poteva che essere questo, con ogni evidenza. Oh, lo so: voi direte che non c’è stato un colpo di stato. Dal punto di vista formale è vero. L’esercito non ha sparato un colpo, c’è stato un referendum e il presidente l’ha perso. Sono state comunque settimane travagliate, concorderete con me, in cui è parso perfino che aleggiasse il fantasma dell’antico oppositore morto in incidente stradale: anch’egli un feticcio di cui la gente si è stancata quasi subito, però, e ora le urla della folla scandiscono altri nomi, altri propositi, altra furia. Si è riversata in piazza una quantità di persone inferocite che fino al giorno prima nessuno sapeva che esistessero: e forse nemmeno esistevano davvero, perché il cuore umano talora muta in una sola notte.
Quanto a me, osservavo gli eventi con la circospezione dell’uomo di mezza età e con la prudenza di chi sapeva che un giorno i suoi lineamenti gli avrebbero causato più guai del dovuto. Lo spazio pubblico, come quello privato, è un amalgama di buchi e di densità improvvise, che si muove secondo i dettami della tragedia e della farsa, o così lo intendiamo noi perché la farsa e la tragedia sono tra i pochi modi in cui ci è dato, come umani, di dare un senso alla realtà che ci circonda. Mia moglie, che invece continuava a uscire come prima, rientrava spesso in casa solo per trovarmi in piedi davanti alla finestra che guardavo la strada tentando di trarre dallo sciamare delle genti gli stessi auspici che gli indovini di un tempo congetturavano nel volo degli uccelli; come se la complessità dei sistemi dinamici intrecciasse una sua forma peculiare di saggezza umana, data dallo studio della storia e dell’antropologia, all’arbitrio delle leggi della matematica. Il presidente tenne dei discorsi in pubblico. Non erano né migliori né peggiori di quelli a cui ci aveva abituato nei vent’anni precedenti: ma non funzionavano più. Sapeva che sarebbe caduto, e cadde. Il giorno in cui al suo posto vedemmo in televisione la faccia livida del vicepresidente che annunciava sprazzi di futuro di cui in realtà nessuno, né lui né i rivoltosi, aveva piena cognizione, rimase impresso nella mia memoria in un modo che le cronache dell’epoca, su cui si accanirono i giornali di tutto il mondo, non potranno mai rendere: sarebbe come cercare di catturare con le parole la morte di una stella.
Era un giovedì. Faceva caldo. La capitale ribolliva, e non ho dubbi che analoghe tensioni scuotessero l’intero paese. La transizione, tuttavia, poteva essere fatta senza spargimenti di sangue: qualcosa sarebbe cambiato, qualcos’altro sarebbe stato mantenuto, c’era solo da accordarsi su cosa salvare e cosa sacrificare. Spensi la televisione e andai in bagno a sciacquarmi. Facevo domande ad alta voce a un pubblico inesistente: suppongo che mi stessi rivolgendo a voi, signori nuovi che state prendendo il paese, e che lo porterete non si sa dove, a seconda delle intenzioni che vi spingono, delle capacità che avete, della sorte che vi spetta. Che farete? Sarete all’altezza dei vostri sogni? E delle vostre imposture? Sono domande che non mi riguardano più, e ve le pongo per mera curiosità intellettuale, per l’antico spirito di un maestro elementare che si accerta che l’alunno davanti a sé abbia studiato.
Mi asciugai lentamente, indossai una camicia pulita. Che succedesse pure quel che doveva: le storie finiscono, ed è questo il loro compito.
Lo specchio, a sua volta, mi interrogava impietoso. Quel giorno riprendevo a vedere la mia faccia, riprendevo a vedere me stesso e non il presidente. E non facevo che domandarmi:
ma davvero gli assomigliavo più di quanto gli assomigliasse chiunque altro?
———
Qui finisce la deposizione che il signor [omissis] ci ha reso di sua iniziativa. Quanto riferito dalla moglie, signora [omissis], concorda sostanzialmente con la suddetta versione. Il soggetto, non essendo imputato di alcunché, è stato rilasciato col vincolo di mantenersi reperibile e di non lasciare il paese. Abbiamo raccolto altresì le testimonianze di quasi tutti gli altri personaggi coinvolti in questo racconto, e le abbiamo archiviate.
Abbiamo infine cercato di rintracciare l’uomo in borghese, incrociando i dati in nostro possesso e sapendo che ormai dovrebbe essere giunto all’età della pensione. La segnalazione è stata diramata a tutte le stazioni di polizia. L’uomo in borghese è sparito. È come se non fosse mai esistito.
[10. Fine. ©ElenaTosato 2024]
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